Avevo aspettative talmente basse per questo libro, viste le recensioni poco edificanti di molti “addetti ai lavori”, che alla fine, a me è piaciuto, e pure parecchio! Capiamoci, da un punto di vista stilistico, fa acqua da tutte le parti, ma è innegabile che sappia arrivare al cuore dei suoi lettori, ossia young adult. Analizziamone il perché.
Gli YA sono gli adolescenti che vivono ogni emozione in modo amplificato rispetto agli adulti. Per loro è tutto o niente, vita o morte, amore o odio. Non esistono vie di mezzo, perché per loro la vita è adesso, non pensano alle responsabilità di una vita adulta, sono molto ancorati alle sensazioni del corpo, più che alle elucubrazioni della mente. Loro sentono tutto in modo molto più intenso. Perciò, se ami una persona la devi amare sempre e comunque, anche se la relazione è tossica e rischia di distruggerti. Ecco perché il tropo del bad boy & good girl continua a fare tanta presa, e continuerà sempre a funzionare.

Fabbricante di lacrime: la recensione


Nel caso del Fabbricante di Lacrime, abbiamo un’autrice che ha perfettamente compreso le esigenze e le aspettative del suo pubblico. Ciò che è fondamentale è saper emozionare e il coinvolgimento che questa autrice riesce a ottenere, pur non usando la scrittura trasparente, è autentico e secondo me da studiare, visti gli esiti.
I sottotemi trattati sono importanti e diversi: l’abuso su minore, la malattia, l’adozione, l’amicizia, la solitudine, l’omosessualità… decisamente troppi per un’unica narrazione, perché si rischia di trattarli tutti in modo superficiale. Normalmente, in quanto editor, suggerirei all’autrice di mettere meno carne al fuoco, devo dire però che l’intreccio è ben fatto e non si avverte la pesantezza degli argomenti. Ciascuno di questi temi, rappresenta un fulcro di conflitto che viene affrontato e risolto nel corso della trama. L’unica eccezione riguarda la malattia di Rigel. Avrei preferito un maggior approfondimento da parte dell’autrice che invece rimane sempre vaga su che malattia sia nello specifico, qual è il nome clinico e cosa comporta per il futuro del protagonista. In compenso, ho molto apprezzato il modo in cui è stata gestita la faccenda Miki/Billie nella subplot. Sarebbe stato facile farne un cliché, ma il modo non scontato, in cui evolve il rapporto tra le due, dona al tema una diversa e più profonda sfumatura.
Molto cliché fa, invece, la tempesta di neve che blocca i Milligan fuori città, lasciando i due piccioncini da soli a casa, e anche il personaggio di Lionel lo trovo molto stereotipato e con veramente poco da aggiungere alla storia. La sua unica funzione è di palesare al lettore la gelosia di Rigel, ma poteva essere sfruttato in modi più interessanti. Nulla che non si possa perdonare ad un’autrice alle prime armi.
L’atmosfera dark che avvolge l’intero romanzo mi ha senza dubbio conquistata. Siamo di fronte a una storia oscura, fatta di durezza più che di bellezza, di dolore più che piacere e proprio per questo, i momenti di luce e amore (inteso nel senso più ampio) risaltano e si fanno così tanto apprezzare. Mi sono commossa nella scena del midpoint, quando Nica finalmente si lascia andare con Anna e inizia il loro vero rapporto madre/figlia. Di certo, un effetto che non è apparso a caso, ma è frutto di scelte ben precise riguardo l’atmosfera, il tono e la struttura della storia.
A questo proposito, voglio sottolineare come per molti dei personaggi sia stato predisposto un arco di trasformazione completo, non soltanto per i protagonisti. La sensazione nei lettori è che la storia sia importante, di grande impatto, una di quelle che si contraddistinguono e che non si dimenticano facilmente. Ovviamente se si è lettori in target.
Sorvolerò sugli aspetti di non verosimiglianza sollevati da molti dei lettori più critici, perché secondo me è stato fatto un buon lavoro di intreccio e caratterizzazione dei personaggi e la mia lettura è stata sempre abbastanza scorrevole. Ho controllato comunque: nello stato dell’Alabama si possono adottare persone anche maggiorenni, se sono incapaci di intendere e volere e/o di provvedere a loro stessi. Mi rimane invece il dubbio sulla terminologia usata durante il processo contro la governante del Grave che infieriva sui bambini. Ma sono dettagli di poco conto in un volume di settecento pagine.

Fabbricante di lacrime: lo stile

Parliamo ora dello stile. L’intero romanzo si regge sulla metafora della falena, simbolo di trasformazione e della stella, luce nella notte. Già solo su questo si potrebbe disquisire per ore. Mi limiterò a dire che tale simbologia si trova già nei nomi dei personaggi, dettaglio a cui faccio sempre caso e quando vedo che viene applicato, mi entusiasmo, perché so che la storia ha da raccontarmi molto di più di quanto dicano le parole scritte sulle pagine. Erin Doom usa un linguaggio estremamente evocativo. Metafore e similitudini servono per caratterizzare nei minimi dettagli i personaggi.
È indubbio che la sua sia una prosa più poetica di quanto ci si possa aspettare, ed è legittimo che alcuni non la apprezzino, ma vorrei evidenziare il fatto che non impiega un registro aulico e distante dal linguaggio dei ragazzi di oggi, anzi, la sua forza sta proprio nel saper evocare immagini correlate a specifiche emozioni. È molto abile nell’uso delle percezioni sensoriali e cinestesiche del corpo.
Utilizza elementi concreti e specifici che i lettori possono ben immaginare, non devono inventarsi nulla, tutto è lì sulla pagina, disposto a dovere affinché il loro film mentale abbia una direzione ben precisa.

Ma veniamo ora alle note dolenti. Indubbiamente il problema più grosso di questo romanzo è la lunghezza e soprattutto l’assurda ripetitività delle stesse parole, degli stessi concetti, delle stesse identiche descrizioni. Fosse stato per me, avrei sicuramente ripulito il testo da ogni ridondanza e dimezzato le pagine. Ma il punto è che il libro non è stato scritto per le persone mature. Gli adolescenti si sentono perfettamente rappresentati dalla reiterazione che sortisce l’effetto di amplificare le scene e le emozioni. Questa è la realtà che gli adolescenti vivono e cercano! La ripetizione dilata la narrazione, la rallenta, il momento presente, con tutto il suo carico emotivo, dura più a lungo, un tempo indefinito sufficiente a imprimere quel determinato attimo nella memoria. Lo stesso artificio, per quanto discutibile, si trova in praticamente tutti i libri YA di ultima generazione, lo si può comprendere da un lato, ma dall’altro, qui abbiamo decisamente un eccesso che più volte mi ha fatto spazientire.
Oltre a questo, ci sono altri problemi di stile che hanno reso la lettura tutt’altro che fluida: abbiamo spesso l’uso del discorso indiretto; cliché linguistici del tipo “finemente cesellato”; stampelle temporali e continue violazioni del principio di consecuzione; spesso si fa un uso improprio di flashback, tanto che non ci si rende conto di essere tornati indietro nel tempo della narrazione, con conseguente reazione what the f**? E vogliamo parlare dell’uso spropositato del corsivo? Lo si impiega per i pensieri (non necessario essendo il romanzo narrato in prima persona); per rimarcare certe parole; per i sogni; per i ricordi ecc, creando in realtà più confusione che altro.
C’è tantissima introspezione con infodump infiniti. Questo è il problema dell’uso della prima persona al passato remoto: si ha il/la protagonista che racconta la sua storia e spesso si cade in spiegoni interminabili, quando invece le varie informazioni dovrebbero emergere da ciò che accade in scena.
Molti hanno criticato l’uso della terza persona per il pov di Rigel, cosa che invece io apprezzo molto perché funzionale alla storia e alla caratterizzazione del personaggio, oltre a essere immediatamente identificabile chi parla.
Ho riscontrato poi alcune incongruenze di trama, ambientazioni mal descritte, insomma, un coacervo di errori, ma posato il libro e lasciatolo riposare per due settimane, quello che mi rimane dentro non sono le lacune di stile, ma l’intensità della storia. Quindi Erin Doom ce l’ha fatta, cosa le si può dire, se non brava? Ricordiamoci che è la sua prima pubblicazione e ha tutto il tempo per correggersi. Di certo la terrò sott’occhio.

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