Qual è il valore di una storia inventata? Soprattutto: ne esiste davvero qualcuna, di totalmente inventata? In un’ottima scuola della città in cui vivo, la lettura in classe della Divina Commedia è stata occasione per riflettere su questo sano interrogativo. Se la trama di un racconto, di una epopea, di un viaggio letterario escono dalla fantasia del suo autore senza riscontro nell’esistenza vera, qual è il senso di lavorarci sopra?

Potremmo rischiare di sorriderci su, ma la domanda costringe a riflettere su cosa è importante che comunichi una storia, e su ciò che accade quando un autore scrive.

Si prenda Cormac McCarthy, ad esempio, tra i narratori più efficaci al mondo. E tra le sue tante opere, si consideri La strada, che nel 2006 gli valse il Pulitzer e che proietta il lettore in un mondo mai (o non ancora) esistito, consumato da una catastrofe ignota, l’umanità sopravvissuta che divora letteralmente se stessa. Ebbene? Nelle 200 pagine di questo romanzo, si muovono due meravigliosi protagonisti, un padre e suo figlio, di cui non si conoscono né i nomi, né il passato. Attraversano territori bui, cercano cibo e riparo dal freddo, la loro meta è la costa. Chi sono costoro? A che giova leggerne i movimenti disperati dentro un pianeta che non è (o non è ancora) reale?

Giova perché ogni storia è fatta della realtà di chi scrive. E a sua volta chi scrive è la somma dei fatti e degli incontri accaduti nella sua vita: una stratificazione di vicende reali che vivono dentro l’autore, talvolta suo malgrado. L’atto dello scrivere è il consegnarle a chi legge. Come piegare a testa in giù il collo di una bottiglia piena d’acqua. Non tutto potrà essere riferito tal quale, ma il modo di guardare i fatti descritti – ancorché inventati – è lo stesso con cui l’autore li guarderebbe, li ha già guardati o li ha visti guardare da altri, nella vita reale.

Dice McCarthy in una delle pochissime interviste concesse: “Molti dei dialoghi del libro (La strada, ndr) tra il padre e il bambino sono conversazioni trascritte parola per parola fra me e mio figlio John. È questo che intendo quando dico che lui è il coautore del libro. John diceva: “Papà, cosa faresti se io morissi?’. E io: ‘Vorrei morire anch’io’. E lui: ‘Così potresti stare con me?’. E io: ‘Sì, così potrei restare con te’”.

I contesti delle storie sono il pretesto per dire altro – e quasi sempre per dire di com’è l’uomo. Nella suddetta intervista, a McCarthy viene chiesta la ragione che “ha provocato il disastro mondiale da cui deriva lo scenario del libro”. Risposta: “Molti me lo chiedono. Io non ho un’opinione al riguardo. Al Santa Fe Institute ci sono scienziati di tutte le discipline, e alcuni geologi mi hanno detto che a loro sembrava un meteorite. Ma avrebbe potuto essere qualsiasi cosa, l’attività vulcanica o una guerra nucleare. Non è importante. La questione essenziale ora è: che cosa fai?”.

Ecco. Il valore di una storia è la verità che racconta di noi stessi. Di ciò che siamo e di ciò che cerchiamo. In qualunque contesto (reale o inventato) ci trovassimo.

Cristiano Guarneri

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