Leggere oggi “La peste” di Albert Camus è quasi come specchiarsi.
Il nodo in cui ci troviamo aggrovigliati – l’emergenza Covid-19 –, con la sua scia di vite spezzate e di contagi che calano a fatica, trova nella storia descritta dall’autore francese di origini algerine più di una coincidenza. Proprio in Algeria sono ambientati i fatti del suo capolavoro. A Orano, città di oltre 200mila abitanti, riesplode l’antico nemico di nome “peste”, del quale da decenni, nel mondo, non si sente parlare e, proprio per questo, si fatica ad ammetterne il ritorno.
La Peste: la recensione
Il primo tratto coincidente tra le pagine di Camus e i nostri giorni è la paura. E insieme ad essa ciò che porta con sé: l’illusione d’essere immuni, la tentazione di rimandare il faccia a faccia con il dramma. I cittadini di Orano, infatti, “continuavano a fare affari, programmavano viaggi e avevano opinioni – scrive Camus –. Come avrebbero potuto pensare alla peste che sopprime il futuro, gli spostamenti e le discussioni?”. Si innesca perciò una breve, ma pericolosa cecità, le cui conseguenze esploderanno con implacabile violenza.
Quando le autorità algerine prendono coraggio e ordinano la chiusura di ogni accesso o uscita dalla città, i suoi abitanti scoprono le condizioni terribili dell’esilio, della quarantena e della troncatura con gli affetti rimasti distanti. E vivono, loro malgrado, l’uguaglianza di una condizione che li accomuna al di là del proprio status sociale. “Non c’erano più destini individuali, ma una storia comune – racconta Camus –, costituita dalla peste e da sentimenti condivisi da tutti”. Pur con le debite differenze, le pagine di questo libro riecheggiano le restrizioni di oggi, chiamati ad un ‘distanziamento sociale’ cui nessuno è (o non è più) abituato, la fatica di rinunciare al contatto coi propri cari, lo strazio di pensarli colpiti dal contagio e non poterli assistere da vicino.
I protagonisti che si muovono nel romanzo di Camus lottano allo stremo delle forze contro l’epidemia. Tra questi, il medico Bernard Rieux, di saldi principi, umanamente essenziale nel rispondere al compito cui la peste lo chiama: servire gli altri senza risparmio. Attorno a lui fanno fronte comune altri personaggi, ognuno dei quali ha le proprie, intime ragioni per sconfiggere il nuovo nemico. Viene alla mente il personale sanitario che fronteggia il virus di questi giorni, e i volontari e i sacerdoti e la gente comune in qualunque modo coinvolta nell’emergenza.
A Orano, la peste compie uno strazio indicibile ma infine si ritira con la stessa inspiegabilità con cui è comparsa. Come su ogni campo di battaglia – lo vediamo oggi – gli uomini provano la lacerazione del dolore e della morte; il pianto per la perdita e la gioia d’una guarigione; ci si svela per quel che si è, con virtù e mancanze che non si possono più nascondere; si saldano amicizie, vecchie e nuove; si conosce la forza di un sentimento quasi sconosciuto, la compassione. E alla fine, ammette il protagonista Rieux, “proprio dentro il flagello si impara che negli uomini ci sono più cose da ammirare che cose da disprezzare”.
Il finale è tutto da gustare e conferma ciò che nel romanzo s’intuisce dall’inizio: la peste è l’allegoria del male che abita l’umanità, contro il quale la lotta è infinita.
Romanzo di una potenza descrittiva magistrale, “La peste” legge come una lente d’ingrandimento i limiti, la forza e le cicatrici che l’inesorabilità dei fatti fa emergere in chi li vive.
Cristiano Guarneri